Rolling Stones, Blue & Lonesome

Quasi allo scoccare del 2017 arriva, dopo un’ottima campagna promozionale, un nuovo disco totalmente dedicato al blues da parte dei Rolling Stones, band di fama planetaria capace, come poche altre, di influenzare diverse generazioni.

Quello che abbiamo tra le mani è – cover a parte se vogliamo – un bel disco, senz’altro non tra i capolavori assoluti della band inglese ma, senza dubbio, nettamente superiore a tanti altri prodotti confezionati da giovani band attuali. Ed è proprio l’età che dovrebbe darci un segnale, poiché è risaputo che i grandi prodotti discografici – la storia l’insegna – sono stati registrati in una fascia d’età entro il trentesimo compleanno. Anche le grandi star, nonostante ottime prove in età matura, non si possono escludere da questa lista.

Gli Stones di candeline ne hanno spente davvero tante; sono nonni, con i fisiologici acciacchi dell’età, eppure riescono ancora magistralmente a confezionarci un disco degno del loro blasone. Certo i tempi di quando c’erano Brian Jones o Mick Taylor, i tempi di “Beggars Banquet”, “Let It Bleed”, “Sticky Fingers” ed “Exile On Main Street” non potranno mai tornare e nemmeno lo possiamo pretendere. Però questo “Blue & Lonesome” è un disco che si merita un posto d’onore nella loro pluri-cinquantennale discografia. È un disco fatto da settantenni che si divertono (beati loro) ad essere dei settantenni. Niente di più. Settantenni che suonano del blues, alla Rolling Stones, senza essere una cover band, perché loro sono gli originali.

E’ invece da sottolineare, a questo punto, l’importanza mediatica di un prodotto come questo, capace di portare il blues su testate e televisioni di tutto il mondo. Di quelle che il blues manco se lo filano e, oggi, tutti ne parlano. Magari non sanno chi è Fred McDowell (gli Stones si, eccome), ma ne parlano. Perché fa parte del sistema.

In questi giorni ne abbiamo lette di cotte e di crude su Blue & Lonesome: chi lo osanna (forse esagerando) e chi lo affossa brutalmente e, tra questi ultimi, troviamo coloro che si sono sempre lamentati che di blues non se ne parla mai, e che ora, per un senso atavico della polemica, gettano gratuitamente fango su questo disco che avrà sicuramente il merito di aprire le strade del blues ad un nuovo pubblico, senza dubbio più trasversale. Lo stesso che in un prossimo futuro potrà riempire le sale dei live club impegnati con tenacia nel presentare una musica sana. Ecco la vera importanza di questo ventottesimo disco della band inglese (che può piacere o meno, come da tradizione della musica) ma che avrà la capacità di andare ad incuriosire i giovani (che curiosi lo sono) e far loro scoprire un nuovo genere musicale, magari spronandoli verso una ricerca alle radici di questo album delle “Pietre Rotolanti”. Perché, ed è bene ricordarlo, non esistono più i negozi di dischi o spazi che ai nostri tempi facevano cultura ed aggregazione. Non c’è una grande alternativa per i nostri figli e nipoti. E se non sono loro ad ascoltare la musica, chi ce la riproporrà più? Tocca a noi tracciare la strada, dando la possibilità di infilarsi in quelle “strade blu”, che hanno rappresentato i nostri percorsi preferiti, quelli che ancor oggi vogliamo ripercorrere, magari anche con troppa nostalgia. Strade dove i giovani musicisti di oggi possono trovare quelle ispirazioni per creare nuovi capolavori, e magari conoscere il blues e da lì partire per realizzare una nuova pietra miliare come “Sticky Fingers”. Proprio come avevano fatto gli Stones. Il 2017, sarà un anno speciale, in cui si parlerà molto di Blues, così come vogliono loro.

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