Fabrizio Poggi, dedicando un’intera vita al blues, ha scritto diversi libri sull’armonica, sul blues e sulla musica popolare, ha inciso ventuno dischi e collaborato con innumerevoli partecipazioni su dischi di altri artisti.

Con la nomina ai Grammy Awards 2018, nella categoria miglior disco blues tradizionale, grazie al disco “Sonny & Brownie’s Last Train” registrato in coppia con Guy Davis, ha fatto concorrenza ai Rolling Stones; di fatto è il primo ed unico bluesman italiano ad aver toccato questa vetta. Lo abbiamo seguito telefonicamente durante questa incredibile avventura e, grazie ai social e all’attentissima Angelina Megassini, moglie e compagna di vita e di avventure, siamo riusciti a ricostruire un diario di bordo fatto di emozioni difficili da trascrivere e soprattutto da metabolizzare. Pertanto Fabrizio Poggi ha cominciato da qui, a fissarle “nero su bianco”.



28 Gennaio 2018: arrivo ed attesa al Madison Square di NewYork per la nomina ai Grammy Awards 2018 per la categoria “Best Traditional Blues Album”.

Di New York si dice che sia la città giusta per realizzare i propri sogni. Io ne sono testimone diretto sin dal giorno in cui ho iniziato il mio cammino con Guy Davis (newyorkese doc) per arrivare (un paio d’anni fa) sul palco della Carnegie Hall, uno dei teatri più importanti al mondo. La candidatura ai Grammys era qualcosa di assolutamente inaspettato. Sinceramente quando mia moglie Angelina mi ha proposto di incidere quello che doveva essere un omaggio a Sonny Terry e Brownie McGhee (si perché l’idea originaria è la sua), non mi sarei mai aspettato di essere in lizza per il premio, “contro” gli Stones (ma anche gli altri musicisti non valevano certo di meno). Ancora adesso ogni tanto mi dò un pizzicotto per verificare di non stare sognando. Ovviamente non c’è mai stata nessuna sfida con i Rolling Stones. Io avevo il poster degli Stones nella mia cameretta quando avevo quindici anni e quindi lo devo un po’ anche a loro se sono arrivato qui. Devo tanto a tutti quei musicisti che – senza volerlo e senza saperlo – mi hanno insegnato tanto. Se qualcuno dei miei amici di quando ero ragazzo mi avesse detto che un giorno avrei “sfidato” i Rolling Stones gli avrei detto: “Dai, non prendermi in giro, lo sai che non succederà mai”. E invece, come in una favola, a volte anche il ranocchio può diventare un principe. Certo ci sono volute lacrime e sangue e tanti bocconi amari ma al di là dell’Atlantico, anche a New York e non solo in Texas, a Memphis o in Mississippi, a volte i sogni possono diventare realtà. Io il mio Grammy personale l’ho vinto il giorno che ho cominciato a suonare con Guy Davis un persona splendida e generosa, autentica leggenda del blues dal talento smisurato che mi ha voluto al suo fianco e che non finirò mai di ringraziare. Che ci crediate o no io ho gioito quando al Madison Square Garden hanno annunciato la vittoria dei Rolling Stones. E’ come se avesse vinto mio padre. E mi sarebbe sembrato innaturale e irrispettoso vincere a loro discapito quello che poi alla fine per loro è stato un Grammy alla carriera, il Grammy dovuto per grandi dischi come “Exile on main Street” e tanti altri. Io ho imparato “You gotta move” da loro. Poi ho scoperto il reverendo Gary Davis e “Mississippi” Fred McDowell. E sempre tramite loro e tramite la loro versione di “Love in vain” ho scoperto Robert Johnson. Per la nostra generazione era così. Arrivavi al blues tramite gli Stones, Clapton, Mayall e tanti altri. Chi ha la mia età e lo nega dice una bugia.

Molti live set a New York, in attesa della cerimonia. Con Guy Davis, sì, ma anche con tanti altri musicisti, ecco il bello della condivisione di questi momenti.

A margine della cerimonia dei Grammys ci sono tantissimi eventi che celebrando le nominations e raccolgono fondi per aiutare musicisti e associazioni benefiche. L’atmosfera è quella di sempre. Ormai tanti italiani sono stati negli States e sanno benissimo che lì da loro atmosfera rilassata e fratellanza musicale la fanno da padrone. Ho condiviso il palco (ed il microfono) con tanti miei eroi musicali che da anni sono anche miei amici. I Grammy sono davvero un evento enorme in America e al di là di tutte le polemiche sul glamour e la competizione è davvero una grande festa della musica. Certo se non si è una grande star le luci del Madison Square Garden e il tappeto rosso su cui si cammina e dove sei quasi assalito da fotografi e troupe televisive può far davvero girare la testa. Io davvero non mi sono ancora ripreso. O perlomeno non l’ho ancora realizzato. Ero così emozionato che ad un certo punto sul red carpet mi sono messo a suonare l’armonica. Così ho stemperato un po’ la tensione ma ho anche rovinato alcune foto ufficiali. Comunque in uno stadio assolutamente blindato da polizia in assetto di guerra e guardie del corpo delle grandi star che apparivano e sparivano come fossero creature ultraterrene i “lavoratori della musica” erano tutti stretti in un grande abbraccio.

Ma ora, cosa ci aspetterà il futuro?

Mi auguro solo che per una volta, come purtroppo altre volte è successo, questo importantissimo riconoscimento non mi renda inviso a tutti coloro che come me bruciano di passione per il blues. Nelle tante interviste di questi giorni ho dedicato la nomination a tutti coloro che suonano, organizzano e scrivono blues. A tutti coloro che come me, qui in Italia, ogni giorno spendono “sangue, sudore e lacrime” per far conoscere agli altri una musica che riesce sempre a toccare il cuore. Ai Grammys, e anche questo l’ho dichiarato con orgoglio cento volte, ho volutamente portato tutto il Blues Made In Italy. La prossima estate compirò 60 anni. Anche nella migliore delle ipotesi non so fino a quando riuscirò a soffiare nella mia armonica. Io spero fino a cent’anni ma gli anni passano, ve l’assicuro, e bisogna essere realisti. Ecco perché mi piacerebbe sinceramente che la famiglia del blues italiano mi invitasse a suonare in Festival in cui nonostante i quasi quarant’anni di carriera non ho mai suonato, in manifestazioni che ho a volte aiutato a fondare e a crescere, in cui non sono più stato invitato da dieci o vent’anni, e vorrei jammare come spesso faccio (quando e come posso) con tutti i giovani musicisti che ci sono in giro che ogni volta mi commuovono perché mi ricordano come ero io alla loro età. Insomma vorrei che mi succedesse ciò che da anni mi succede in America che non è il paradiso naturalmente ma è un paese in cui ogni persona può trovare ciò che si va cercando. E questo non è poco. Bisogna trovare anche da noi lo stesso spirito che alberga nei cuori blues d’oltreoceano, dove polemiche, rivalità ed ego smisurati vengono superati facilmente al solo pensiero che ognuno ha la sua storia, ognuno fa la sua corsa, e ognuno è diverso e per questo unico e inimitabile.
Per il resto continuerò a suonare come sempre cercando di mostrare l’armonica che ho tatuata sul cuore e che suonerò con passione finché avrò forza e salute. Spero che questo risultato aiuti tutti coloro che suonano una musica considerata qui da noi “figlia di un dio minore” ad avere più rispetto e considerazione. Purtroppo è una speranza difficile da tenere accesa. Io sono dovuto fuggire dal mio Paese per realizzare i miei sogni. Spero che i ragazzi che oggi decidono, come ho fatto io quarant’anni fa, di suonare “l’altra musica” lo possano fare in un Paese “musicalmente civile”. Spero di avere con la mia infinita passione sfondato una porta che da ora in poi resterà aperta per tutti coloro che come me vorranno percorrere un cammino lungo e tortuoso ma che dona tante di quelle emozioni che un cuore solo non basta a contenerle. Ecco perché vanno condivise. Con tutti.

 Fabrizio Poggi | A-Z Blues press

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